Nella precisa intenzione di comunicare e relazionarsi alla propria comunità Dogali realizza una pubblicazione a stampo territoriale.
Al fine di sviluppare un approccio più lineare e familiare riguardo ad argomenti spesso ignorati – e così temuti – nella vita di tutti i giorni.
E se un’altra concezione del rapporto inizio-fine, età-eternità, realtà-aldilà interessasse le nostre riflessioni, il concetto di vita e il
momento di morte?
Siamo uomini. La nostra linea del tempo ha un preciso punto di arrivo, un limite oltre il quale qualsiasi esperienza terrena è
compiuta.
Ricordiamolo – riconoscendo e accettando il senso della caducità – per comprendere quanto ogni nostra azione possa risplendere di
un’intensità piena, di una gratitudine profonda e sincera.
Se capitasse per l’ultima volta, quanto sarebbe più forte, indescrivibile, unico?
Nella nostra società c’è chi con la morte ha imparato a confrontarsi
quotidianamente, facendo del servizio, dell’assistenza e di tutte
le pratiche concernenti l’evento il proprio mestiere.
Un mestiere di presenza sicura nell’incerto sopraggiungere di ogni
assenza. Un lavoro che si può realizzare in molti modi, dove la
correttezza e l’onestà della prestazione rappresentano un doveroso
codice di condotta, una tacita e discreta alleanza con la propria
comunità.
La distanza che accomuna questo duplice aspetto di ogni dipartita è quella della vicinanza e del riferimento. Per qualsiasi cosa, esserci: oltre una promessa, un accordo di rispetto.
La realtà si può anche giocare.
La propria sorte darla agli scacchi.
Nella fantasia dell’arte è lecito inventare, sognare, fare magie.
A volte è sufficiente un tocco per vincere il limite dell’inevitabile;
un colore o una suggestione per vedere qualcos’altro e dare forma
all’eccezionalità.
È un’illusione possibile, un racconto che rapisce lo sguardo e fa
pensare.
Ai margini occidentali del centro di Pià-Piano-Pian Camuno, in
adiacenza alla Chiesa di Santa Giulia Vergine e Martire, ci troviamo
nell’Oratorio dei Morti o Cappella dei Disciplini, un’antica chiesetta
del XVI secolo in passato frequentata dai Disciplinanti, quel
movimento medievale particolarmente votato al culto dei morti e
all’espiazione dei propri peccati.
Dall’affresco uno scheletro ci parla e invita a meditare.
All’eremita, al ricco signore, a noi, pare esortare ad apprezzare integralmente la propria esistenza, ad amarla tenacemente, a dirigere l’andare delle cose con impegno a buon fine. Poi ci sarà il distacco, l’oltre, il grande viaggio e tutti saremo uguali, senza classi o distinzioni, dinanzi alla Morte.
È il senso e la regola della Danza Macabra: il valore egalitario della fine e l’inutilità del potere o del bene materiale terreno; l’incontro dell’uomo con una figura-simbolo quasi familiare, non spaventosa né terribile, quasi un’ambasciatrice del tempo e del caso, una compagna naturale e biologica.
Altrove dal conosciuto, nel mistero di quello che sarà dopo, gli invitati al ballo e tutto il pubblico si ricordino di onorare la Vita, in ogni momento e istante, con buona gioia di esistere.
Lo sapevano bene gli antichi e ben lo ribadisce lo scheletro a
mosaico di Antiochia, dal III secolo a.C. intento a gustare una
coppa di vino e una forma di pane.
"Sii allegro, goditi la vita", riporta
l’iscrizione che accompagna il suo
banchetto, decisamente essenziale.
Del domani incerto e del destino
imprevedibile è giusto il caso di
preoccuparsi, adesso?
(Carpe Diem). Rinvenuto a Pompei,
oggi al Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Mosaico, 70 x 91 cm
Foto: Marie-Lan Nguyen (2011)
Chiederlo allo scheletro di Pompei – allo scheletro coppiere – è un’idea; il gradimento pronto del piacere – assai probabilmente – la sua risposta.
Tra una mescita e un bicchiere è oltremodo imprescindibile brindare alla memoria del buono e del bello, alla possibilità più propria dell’esserci.